Tfr, esclusiva italiana. Inserirlo in busta è un altro modo per imporre nuove tasse alle imprese?

Matteo Renzi

Matteo Renzi

Matteo Renzi ha così torto dicendo che il Tfr (Trattamento di fine rapporto cioè la vecchia liquidazione) debba essere inserita in busta paga? Le risposte possono essere due. Se si guarda la cosa dal punto di vista delle imprese la risposta è di sicuro Sì. Se leggiamo in commento di Rocco Todero su LeoniBlog la risposta si ribalta e diventa No. E allora cominciamo da Todero: «Chissà cosa penserebbero oggi John Locke e John Stuart Mill, tra i più illustri padri fondatori della dottrina liberale, nello scoprire che esiste un Paese dove vige il trattamento di fine rapporto (TFR). Un istituto giuridico in virtù del quale una parte della retribuzione del lavoratore, una sua proprietà cioè, gli viene regolarmente sottratta per essere corrisposta solo alla cessazione del rapporto di lavoro in ragione della presunzione che il medesimo lavoratore non sia capace di farne un uso adeguato alle sue necessità e che è meglio che la custodisca qualcun altro in vista di esigenze di vita che il proprietario non può, a causa evidentemente di minorità psichica, opportunamente considerare.

«Chissà cosa penserebbero Locke e Mill – continua Todero – nello scoprire che le organizzazioni dei lavoratori concordano sulla bontà di questo strumento di retribuzione “differita” e si oppongono a che il lavoratore percepisca subito tutto il corrispettivo del proprio sudore per utilizzarlo come meglio crede. E chissà che faccia farebbero nel sapere che il sindacato tace da diversi decenni sul fatto che la retribuzione “differita” del lavoratore viene messa a frutto senza il suo consenso dalle imprese che la utilizzano per i loro investimenti e persino dallo Stato professionista della dissipazione. Locke andrebbe su tutte le furie di sicuro nell’ascoltare i rappresentanti dei datori di lavoro affermare che la retribuzione dei lavoratori rappresenta una fonte di “autofinanziamento” che non può essere sottratta alla imprese e si chiederebbe, di certo basito, come ci si possa “autofinanziare” con l’utilizzo di una proprietà altrui».

Se questo è il pensiero di Rocco Todero bisogna anche ribaltare la medaglia e vedere la cosa dalla parte degli imprenditori che avrebbero un solo beneficio nell’inserire in busta il tfr: evitare di doverlo sborsare tutto alla fine del rapporto lavorativo. Per il resto, il Tfr in busta significa, in concreto, pagare nuove tasse – che verrebbero pagate subito allo Stato sempre a fronte di pochi o nessun servizio – subito. E cosa accadrebbe alla fine del rapporto? I lavoratori abituati ad avere una “buona uscita” si accontenterebbero di percepire solo l’ultima busta? Oppure si rivolgerebbero al tribunale per un trattamento di fine rapporto migliore?
Se l’obiettivo è quello di favorire il lavoro il problema che va affrontato subito è quello di ridurrre le tasse e favorire non solo eventuali nuove assunzioni ma anche il mantenimento delle posizioni attuali. E a quel punto, e con una regolamentazione ad hoc della materia, si potrà pensare di inserire il tfr in busta. Sono le imprese che mandano avanti questo Paese, il Governo non dovrebbe dimenticarlo.

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