Da arricriato a matelico… il fascino del vernacolo catanese si scopre in “Gran Circo Catania”

La copertina del libro di Giuseppe Lazzaro Danzuso "Gran Circo Catania"

La copertina del libro di Giuseppe Lazzaro Danzuso “Gran Circo Catania”

La lettura del libro dell’amico e collega Giuseppe Danzuso “Gran Circo Catania”, recentissimamente presentato, apre sin dalle primissime pagine, uno spaccato fantastico della città e del suo linguaggio: il vernacolo. Vera e propria lingua oggi poco e male parlata. Un tempo, basta guardare i film girati negli anni ’50, parlare il dialetto era una cosa normale. Tra le persone comuni ma anche negli uffici pubblici, nelle scuole e perfino all’Università era prassi utilizzarlo a posto della lingua italiana. Adesso, chi parla in dialetto o, addirittura, chi solo lo sa parlare, viene considerato poco più di un cafone. Ma veramente usare il vernacolo è sintomo di ignoranza e volgarità? Certamente no. Anzi, perdendo l’uso della “lingua locale” si sono perdute numerose tradizioni che fanno parte del patrimonio culturale delle varie zone d’Italia.
Il dialetto siciliano, discendendo direttamente dal latino, è un esempio sintomatico delle perdita di una grossa tradizione culturale. Infatti, provenendo dalla vita quotidiana della gente, è molto più “illustrativo” dello stesso italiano.

Esistono, cioè, termini che indicano qualcosa che nella lingua di Dante e Boccaccio non hanno un esatto corrispondente e richiedono l’uso di più parole. Proviamo a fare degli esempi. La prima parola che viene in mente è un verbo riflessivo alla prima persona singolare: m’arricriai dal verbo arricriare. Se la cosa fosse riferita solo al cibo la traduzione esatta sarebbe satollo ma, spesso, i siciliani lo usano per descrivere anche uno stato morale. Uno dei pochi vocabolari siciliano-italiano esistenti lo traduce come divertirsi… restiamo perplessi. A nostro umile parere una traduzione accettabile sarebbe: “ho avuto una grande ed intimo piacere nel provare ciò che provo!”.

Altro termine intraducibile è infrasciamato o ‘nfrasciamatu, colui che è vestito male, senza alcuna cura, coperto di stracci o di abiti simili a stracci. Il vocabolario, a scanso di equivoci non lo cita neppure. Una traduzione potrebbe essere sciatto o arruffone oppure vestito malamente senza nessuna cura. Continuiamo. Altro termine è viriri, cioè stare a guardare con l’intento di spiare o, almeno, di spettegolare; stare all’erta nella speranza di poter scorgere è la traduzione giusta, il termine siciliano è più complesso. Potrebbe essere scrutare ma la valenza è differente. Forse attenzionare ma non rende l’idea dell’intento “pettegolo”.

Una sfida: qualcuno si privi a tradurre con un’unica parola il termine lappusu. Sapore indefinibile che, però, non è quello del limone che al limite “allia i denti”, cioè lega i denti. Lappusu è un sapore, forte e strano, che si riscontra addentando un frutto.
E cos’è, invece, il matelico. I più superficiali direbbero un uomo cinico, sul modello del Gastone di Petrolini. Sbagliato quel tipo corrisponde al nostro “liscio”. Il matelico è ben altra cosa. È colui che ha un’ironia profonda, accompagnata da una buona dosa di indolenza e di sarcasmo. Non è cinico, non è ironico, non è indolente, non è antipatico ma neppure simpatico: è tutte queste cose messe insieme. Il vocabolario non lo cita. Altro termine famoso è vanniare cioè urlare. Non urlare in maniera generale, ma urlare per pubblicizzare il proprio prodotto da vendere oppure urlare contro qualcuno. La vanniata, pero, può essere fatta anche con un tono non troppo acceso della voce. Strigliata può essere una traduzione accettabile ma solo per il secondo. Capuliatu è la carne tritata ma è anche qualcuno bastonato, pestato in maniera violenta ma non mortale o estremamente pericolosa: infatti il termine ha in sé una punta di ironia nel momento in cui paragona la persona alla carne. Il discorso potrebbe continuare a lungo, tanto è complessa la “lingua” siciliana. L’importante è non dimenticare che ha un suo valore, certamente non inferiore all’italiano, che non deve essere trascurato perché la sua conoscenza è anch’essa cultura.
Per dimostrarlo ecco l’inizio di una poesia di Giovanni Lizzio, poeta catanese, scritta nel 1895:Mentri ca mi truvai, tra na campagna, era tempu di stati e di matina, m’assettu sutta un pedi di castagna, ca lu friscu vinia di la marina. Ccu dd’aria ca susciava, oh cosa magna, si rifriscava sta vita meschina: e mentri ca lu sonnu mi calau, la Musa di dda allura m’affirrau”.
Anche il Lizzio, come ogni poeta che si rispetti, invoca le muse all’inizio del suo componimento. Scherzi a parte, bisognerebbe rivalutare il dialetto siciliano per evitare, in questa epoca di internazionalizzazione, di perdere completamente le radici della nostra sicilianità.
Giovanni Iozzia

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