Per quanto strano sembri, l’Italia patria della commedia dell’arte, culla quasi esclusiva del teatro lirico, nazione di navigatori, di santi, pittori, scultori e anche di guitti, incantatori e mestatori d’ogni risma, non è una nazione ricca di drammaturghi di livello internazionale. Se si eccettua Goldoni, Pirandello, Eduardo De Filippo e, solo più recentemente e in minor misura, Dario Fo; tutti gli altri scrittori di teatro, fra i quali annoveriamo letterati di altissima levatura (uno per tutti: D’Annunzio!) sono rimasti in qualche modo confinati dentro i limiti di una fruizione e di un successo squisitamente nazionale. L’inizio del millennio pare ci abbia regalato un autore capace di elevarsi alle platee internazionali: ci riferiamo a Gianni Clementi, il più rappresentato in Italia tra gli autori contemporanei, sicché di recente a Roma c’erano tre sue opere messe in scena alla stessa ora in tre teatri diversi! Oltre alla perizia dialettica, alla “facondia” drammaturgica e alla fantasia davvero inesauribile, Clementi unisce una universalità di temi e sentimenti che rendono le sue numerose opere così tanto richieste di rappresentazione, da indurre lo stesso artista ad affermare: “da qualche anno riesco a vivere di diritti teatrali”.
Un contributo non indifferente al successo del “fenomeno” Clementi lo ha dato in questi anni la città di Catania e per essa il Teatro Brancati che ha già ospitato l’anno scorso “Il cappello di carta” e proprio in questi giorni ospita la piéce “Finchè vita non ci separi” per la regia di Vanessa Gasbarri, scene e costumi di Velia Gabrilele.
La commedia è ambientata all’alba in casa del maresciallo in pensione Cosimo Mezzanotte (Antonio Conte), che si prepara alle nozze del figlio Giuseppe (Nicola Padano), paracadutista dei carabinieri appena rientrato da una missione in Afghanistan. La moglie, signora Alba (Giorgia Trasselli) è contraria ma abbozza e spera nel ripensamento finale, ma l’arrivo del commilitone Mattia (Alessandro Salvatori) e della parrucchiera Miriam (Claudia Ferri) mettono un po’ di sale a tutta la storia. Eloquio e situazioni divertenti, costruite sul carattere stereotipato dei personaggi, si susseguono fino al momento in cui tutto sembra pronto, ma qualcosa rompe il perfetto equilibrio di finzioni e maschere costruito in famiglia, innescando un’intricata situazione di equivoci e comicità.
Ad essere messo in scena è un intreccio di realtà fatta di ipocrisia e perbenismo, segno di una società conservatrice, incapace di adattarsi alla modernità e dell’aspirazione al sogno di una vita corrispondente al desiderio che ha di se stessa. Assistiti da una regia sobria, snella, puntuale, precisa, gli attori e le attrici hanno dato prova di una bravura, ciascuno nei propri ruoli, inappuntabile. Mai una sbavatura, un “sopra le righe”, una pausa di troppo, convincenti nel riso quanto nel pianto. Una prova di corale professionalità, senza contorsionismi semantici e trappole di senso che ha riportato l’uditorio ai tempi in cui il teatro era soprattutto perfezione stilistica. Lo spettatore troverà anche che la complessione di ciascun attore, trucco a parte, si confà al personaggio interpretato: dagli atletici militari Nicola Paduano e Alessandro Salvatori al peperoncino sapiente dell’hair stylist Claudia Ferri; dalla strategica pazienza di Antonio Conte alla invadente, necessaria prevaricazione di Giorgia Trasselli conosciuta dal grande pubblico per essere stata per quindici anni la governante degli indimenticabili Sandra e Raimondo nella sit-com di Canale 5 e che ha dato prova, ancora una volta, di essere una straordinaria attrice capace di coloriture interpretative amplissime.