Il divorzio breve o dagli assordanti silenzi… degli ecclesiastici

Udiiite udiiite! La Camera dei Deputati ha approvato con 381 voti favorevoli, 30 contrari, 14 astenuti la proposta di legge (adesso passata al Senato per la definitiva approvazione) sul cosiddetto “Divorzio breve” che ridurrà i tempi dello scioglimento del matrimonio a 12 mesi (in caso di opposizione di uno dei coniugi) e a 6 mesi (nel caso di volontà congiunta), indipendentemente dalla presenza o meno di figli. Se la separazione è giudiziale, il termine decorre dalla notifica del ricorso, mentre la comunione dei beni si scioglie quando il giudice autorizza i coniugi a vivere separati o al momento di sottoscrivere la separazione consensuale. La legge si applicherà ipso iure anche per i procedimenti in corso. È dunque probabile che il prossimo ottobre l’Italia, con un ritardo di duecentodieci anni rispetto al Codice Napoleonico, che l’aveva introdotto nei territori del dominio dell’Impero (Italia compresa) nel lontano 1804, avrà una legge sul divorzio degna di questo nome.

Un coro unanime d’approvazione s’è levato d’ogni dove, tuttavia colpisce l’assordante silenzio delle gerarchie ecclesiastiche di solito prontissime a levarsi per indicar le vie che portano ai principi irrinunciabili e tra questi l’indissolubilità del vincolo matrimoniale c’è di sicuro.
Non potrà capirsi la portata del provvedimento se non se ne comprende la scaturigine. Il divorzio italico comincia il primo giorno di Dicembre del 1970, e comincia in un modo che oggi apparirebbe indegno. Da quel dì ci si poteva rivolgere al giudice per divorziare, ma bisognava aspettare almeno 7 anni 7 prima di avere riconosciuto il diritto: cinque anni dalla separazione e altri due almeno per le lungaggini giudiziarie.

Cinque anni di riflessione: un obbrobrio giuridico e sociale, frutto del compromesso parlamentare tra il PCI e la DC che rinunciava all’ostruzionismo in ragione dei 7 anni ottenuti. Si dovrà aspettare l’87 per avere, non senza fatica, la prima abbreviazione 3 + 2, che è sempre meglio di 7. Con la proposta attuale s’arriva all’anno o ai sei mesi. Il passo è enorme. Non si dimentichi però che c’è sempre un “più due”, giacché l’opposizione decisa dell’altro coniuge importa sempre, e comunque, un allungamento dei tempi di scioglimento del vincolo, con comprensibile soddisfazione degli avvocati che… devono campare anche loro!

Bene, bravi ai nostri deputati. Eppure – non è per fare il guastafeste – se questa legge sarà un successo e non un obbrobrio, non si può dire che non sia un compromesso come nel ’70 fra laici e cattolici per imbrigliare il diritto all’autodeterminazione personale. Nei paesi civili (uno per tutti: United States) questo periodo di riflessione o non esiste o si riduce a poche settimane, cui anche lì vanno aggiunti i tempi per i cavilli giudiziari. Lo scioglimento del matrimonio è il fallimento di una prospettiva esistenziale, quando si va dal giudice il travaglio, il dolore, la riflessione personale sono già avvenuti. Non ha alcun senso, se non quello dilatorio e punitivo, riflettere ancora dopo che s’è deciso di por fine al matrimonio. A ben vedere non ha nemmeno senso, come avviene ancor oggi, che il giudice ci metta il naso – anche se formalmente – con il quasi sempre inutile, imbarazzante tentativo di conciliazione. Spiace dirlo, siamo come 44 anni fa, di fronte ad una legge di compromesso. I nostri odierni illuminati parlamentari devono avere avuto orecchie sensibilissime, così da udire – loro soli – gli assordanti silenzi.
Matteo Licari

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