Se la scenografia incanta… Leo Gullotta e la forza della parola in “Prima del silenzio”

Leo Gullotta abbracciato dalle lettera sul palco del Teatro Verga (foto di Giampaolo Demma per lo Stabile)

Leo Gullotta abbracciato dalle lettera sul palco del Teatro Verga (foto di Giampaolo Demma per lo Stabile)

La parola va in scena e diventa strumento di sopravvivenza e libertà, forza profetica. Un mezzo per rendere vivo il testo interpretato da Leo Gullotta sul palco del Teatro Verga. Sul palco un Lui senza nome, ben oltre la mezza età. È un poeta disilluso, malinconico, amareggiato nei confronti di una società che non riesce più a comprendere. Deciso a lasciarsi tutto alle spalle, famiglia, poesia e vita stessa, l’unico legame che sembra essergli rimasto è un giovane (Eugenio Franceschini) affascinante, dinamico e spensierato, con cui intraprende una relazione ambigua fatta di attrazione fisica e intellettuale e, al contempo, di differenze e incomprensioni.

Uno scontro generazionale fra un uomo maturo e un giovane, attratti da forze ambigue come amicizia, sesso, amore, dove la necessità diventa quella di testimoniare il valore della parola e il suo fallimento, per rappresentare il binomio tra il mondo degli adulti, che sconta gli errori del passato, e quello dei giovani, che rimane intrappolato nelle paure del futuro. Se il ragazzo considera le parole un limite alla realtà, un ostacolo all’azione e a quell’intraprendenza selvaggia che contiene a fatica, il poeta scorge nell’uso della parola l’unico vero modo per sentirsi ancora vivo, ritenendo necessario dire tutto il possibile prima del silenzio, ovvero prima che cada la quiete della morte. Spinto da questa lotta impossibile tra l’incapacità a usare le parole e il rifiuto a voler creare un linguaggio comune, il poeta esorcizza il confronto-scontro con il ragazzo attraverso l’apparizione recriminante dei fantasmi della sua vita passata: la famiglia che emerge attraverso il personaggio della moglie (Paola Gassman) come un’entità vorace e ricattatoria; la casta, rappresentata dal personaggio del figlio (Andrea Giuliano) con i suoi orpelli e contributi piccolo borghesi; il dovere che si materializza attraverso il maggiordomo (Sergio Mascherpa) e le sue oppressioni che fanno leva sul senso di colpa.

Tre fantasmi che ritornano in vita come incubi e fanno da contraltare al rapporto che il poeta ha costruito con il giovane ragazzo, mettendo in discussione le proprie convinzioni, passioni e speranze che lasciano spazio, infine, solo alla forza della parola. E fantasmi lo sono davvero queste tre figure che affollano una scena senza un’apparente scenografia dove l’unica cosa “reale” è il divano rosso, tre enormi pannelli fissi e un velo che scende di quando in quando per dividere lo spazio tra il palco e il pubblico. Sembra una trovata inutile quel velo scuro che scende dall’alto ma quando le onde del mare travolgono non solo il palco ma anche i due attori, il velo reale e il dubbio nella mente si frantumano e i punti interrogativi si dissolvono. Da quel momento la scenografia entra in scena e lo fa da protagonista per tutto lo spettacolo: dalla forza dell’immagine di Paola Gassman che si triplica e si quadruplica sovrastando e inghiottendo Leo Gullotta, fino alle singole lettere che danno corpo alle parole che avvolgono il protagonista negli ultimi istanti. Uno spettacolo da non perdere (sarà in scena fino al 29 marzo) firmato da Fabio Grossi con una produzione del Teatro di Roma, in collaborazione con Teatro Eliseo e Fuxia contesti d’immagine. Un omaggio a Giuseppe Patroni Griffi nel decennale della morte.

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